L’anno che si è appena aperto si caratterizza per una grande incertezza politica ed economica. I rischi sul piano della sicurezza e della tenuta delle istituzioni democratiche sono gravissimi. Per l’Europa, la brutalità e l’arroganza della Russia nei confronti dell’Ucraina rappresentano una minaccia esistenziale che è indispensabile fermare, senza cedimenti. Anche sul piano economico pesano le incognite delle tensioni internazionali, le conseguenze dei conflitti in corso, le previsioni di rallentamento dell’economia europea, cui si somma la nostra situazione specifica italiana aggravata dalla dimensione del debito pubblico.
È chiaro che, in uno scenario così minaccioso e irto di pericoli, aggravato dal rischio di un possibile ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, non sono certo i singoli Stati europei ad avere gli strumenti per dare risposte efficaci. Sono tutti ambiti in cui i Paesi dell’Unione europea devono saper agire uniti, perché separatamente la loro sovranità è vuota e impotente; per questo la vera sfida del 2024 sarà quella di lavorare per costruire una nuova capacità di agire a livello europeo creando una sovranità comune e condivisa, strumento indispensabile per ridare ai cittadini il controllo del proprio destino.
Ci sono due appuntamenti in tal senso nella prima metà del 2024 che saranno decisivi. Di uno se ne parla molto (anche se spesso in un’ottica sbagliata, perché nazionale), ed è quello delle elezioni europee; dell’altro non se ne parla affatto, anzi si tende ad ignorarlo o a minimizzarlo, mentre sarà dirimente per capire in che direzione si vuole portare l’Unione europea. Il 22 novembre il Parlamento europeo ha approvato la richiesta di aprire una Convenzione ex. Art. 48 TUE per riformare i Trattati, sulla base delle richieste dei Cittadini formalizzate nelle conclusioni della Conferenza sul futuro dell’Europa (CoFoE). Si tratta di un atto politico con cui il Parlamento – che ha anche elaborato un insieme coerente di riforme allegate alla richiesta di avvio della Convenzione – ha preso in carico le specifiche esigenze manifestate dai Cittadini della CoFoE e ha dato risposte puntuali anche laddove gli attuali Trattati sono insufficienti. Il processo di revisione dei Trattati durante la CoFoE è infatti emerso come una richiesta cruciale dei Cittadini stessi. Il Consiglio dell’UE, subito dopo il voto del Parlamento, ha trasmesso la richiesta al Consiglio europeo, che dovrà decidere a maggioranza semplice se darle o no seguito.
La mancanza di informazione, l’anomala sottovalutazione dell’esercizio democratico rappresentato dalla CoFoE – il primo esperimento nella storia di partecipazione democratica sovranazionale dopo quello del voto europeo –, l’inerzia colpevole degli apparati burocratico-amministrativi, sia europei che nazionali, stanno rischiando di far deragliare su un binario morto questa iniziativa da cui invece dipende il futuro dell’Unione europea.
Per l’Italia si tratta di valutare, a livello di forze parlamentari di maggioranza e di opposizione, e soprattutto a livello di Governo, cosa fare rispetto a questa possibilità. L’attuale UE è stata ridefinita all’inizio degli anni Duemila per affrontare un mondo completamente diverso dall’attuale, sulla base di un modello che oggi è in crisi profonda, come dimostrano le difficoltà del suo Paese simbolo e traino, la Germania. Non ha le competenze, le risorse, la capacità di azione per farsi carico delle sfide della sicurezza (militari, politiche, economiche) che oggi sono cruciali e rispetto alle quali non possiamo più fare affidamento esclusivamente sugli Stati Uniti.
L’Italia soffre particolarmente le carenze dell’attuale UE in alcune materie cruciali. L’assenza di una politica estera europea efficace e di una difesa comune, si riflette in tante materie strategiche, a iniziare da quella migratoria; analogamente siamo messi in difficoltà da un’Unione monetaria che funziona in base a regole cui non si accompagna una politica fiscale europea e da un’unione economica che non prevede un’unione di bilancio e quindi la possibilità di finanziamenti europei per gli investimenti e la creazione di beni pubblici comuni.
Per l’Italia, con le sue caratteristiche e la sua posizione geografica, sarebbe dunque cruciale che l’UE riuscisse a fare le scelte politiche necessarie per difendere i valori e gli interessi dell’Unione e dei suoi Stati membri che credono nella democrazia, nella libertà e nell’economia sociale di mercato. E’ un fatto però che con l’attuale assetto politico-istituzionale queste scelte non si possono fare. Chi insiste nel dire che gli indispensabili cambiamenti dei meccanismi decisionali e delle politiche comunitarie da attuare in vista dell’allargamento all’Ucraina, alla Moldavia, ai Paesi balcanici, presto anche alla Georgia, si possono fare con gli strumenti in vigore – come le clausole passerella che permetterebbero di optare, all’unanimità, di decidere a maggioranza in seno al Consiglio su alcune materie – devono spiegare non solo perché dal 2009 ad oggi sono state sempre evocate e mai utilizzate, ma anche come si fa con la difesa e il bilancio, ambiti cui le clausole passerella non si possono applicare. Dovrebbero spiegare come si può dar vita ad una politica estera senza creare quella capacità di governo democratico a livello europeo che a livello nazionale invece è ritenuta condizione indispensabile. Non si governerebbe l’Italia cercando di armonizzare gli interessi di 20 regioni eterogenee, ma la si governa grazie ad un sistema istituzionale che fa emergere l’interesse comune (l’interesse nazionale). Allo stesso modo per far emergere l’interesse comune europeo serve che quando si devono mettere in campo politiche europee il sistema di elaborazione delle decisioni e di attuazione delle linee guida non sia quello della ricerca del compromesso tra Paesi membri, ma nasca dal confronto tra Stati (che avviene nel Consiglio) e tra cittadini (rappresentati nel Parlamento europeo), con una doppia maggioranza che garantisce la possibilità di coniugare politiche che godono di ampio consenso, efficacia e controllo democratico. Serve inoltre che nelle materie politiche che hanno dimensione europea non siano gli Stati membri ad erogare i finanziamenti necessari, ma che si inizi a rendere il bilancio europeo più ampio come dimensioni e autonomo come natura dei fondi, con alcune tasse specifiche e con l’emissione di debito. Questo passaggio – che delinea nei fatti il modello federale, che è esattamente l’opposto di quanto soprattutto in Francia viene temuto come “super-Stato” – è una condizione necessaria per costruire una difesa, una politica estera, una politica industriale e macroeconomica europee.
Aprire questo dibattito politico così importante per i veri interessi del nostro Paese, portare il tema del futuro dell’Unione europea e della necessità della sua riforma all’attenzione dell’informazione e dell’opinione pubblica, è un’emergenza democratica nazionale. Il Governo italiano deve sentire l’appoggio e anche lo stimolo di tutte le forze politiche in Parlamento, in modo bipartisan, nello schierarsi a sostegno dell’apertura di una Convenzione per la riforma dei Trattati da decidere già a marzo nell’ultimo Consiglio europeo utile prima delle elezioni europee. Comunque si voglia immaginare di costruire un’Unione europea che sappia rispondere meglio alle sfide con cui siamo confrontati e alle esigenze dei cittadini e degli Stati membri, è un fatto che una riforma dei Trattati è una condizione assolutamente necessaria.
In queste ultime settimane, si sono perse già molte occasioni utili in tal senso. Il dibattito parlamentare sul Patto di Stabilità e sul MES ne è un esempio importante. Era il momento per far emergere un confronto su come sottrarre l’Europa alla sola rigidità delle regole per dar vita ad un’Europa della politica, per evidenziare il profondo interesse europeo dell’Italia, isolando culturalmente e politicamente gli atteggiamenti estremisti antieuropei manifestatisi in alcune forze politiche di maggioranza e di opposizione; invece, oltre al voto imbarazzante per il Governo, si è solo assistito ad uno scontro sterile, in cui non è emerso né quale debba essere, né quale sia il disegno europeo dell’Italia.
Tutto questo si riflette anche sulle prossime elezioni europee. Recentemente la Presidente Metsola in un’intervista ad un televisione italiana, proprio in vista del voto di giugno, ricordava che la vera sfida con cui è confrontata l’Unione europea è quella tra le forze anti-europee che vogliono minare la solidità dell’UE (e che non a caso sono anche filo-putiniane, scarsamente democratiche, simpatizzanti per Trump); e quelle invece – al di là della destra e della sinistra – saldamente ancorate ai valori occidentali e al quadro europeo democratico e liberale, a partire dal posizionamento rispetto alle grandi questioni internazionali, innanzitutto la guerra della Russia contro l’Ucraina. Far emergere senza ambiguità questa vera e profonda divisione tra le forze politiche, sapendo quindi superare i tatticismi legati all’ottica del solo potere nazionale, dovrebbe essere il punto di riferimento per i programmi e le campagne elettorali di tutti i partiti, ponendo fine anche all’umiliante diatriba sulle candidature in ottica di misurazione dei rapporti di forza in Italia.
L’Italia ha bisogno di chiarezza e coerenza: di un Governo che non usi doppi standard di comunicazione nei palazzi e nelle piazze, e di un’opposizione che propugni con coerenza e coraggio un progetto europeo in tutte le sue declinazioni. Schierarsi come Paese – Governo e Parlamento tutto – per portare la richiesta avanzata dal Parlamento europeo con il voto del 22 novembre nell’agenda del Consiglio europeo di marzo, e lì difendere l’avvio di una Convenzione fissandola già a inizio 2025, è un banco di prova e un atto di responsabilità con cui sono chiamate a misurarsi tutte le forze politiche, nel nome dei veri interessi dei cittadini italiani. Come federalisti sarà questo il criterio con cui valuteremo e presenteremo agli elettori le posizioni dei partiti.
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